Come complicarti la vita in 3 mosse

Un libro che mi è piaciuto molto, ai tempi dell’università, è “Istruzioni per rendersi infelici” di Paul Watzlawick. Diciamo che mi è piaciuto principalmente il titolo, che, in un mondo popolato da consigli  su come fare per trovare la felicità, lavora invece all’inverso e dice: ok, vediamo come ci si rende infelici e lavoriamo di conseguenza.

Negi anni di lavoro come counselor, che comunque non disgiungo mai dal lavoro personale su di me, quello che mi si mostra in tutta la sua evidenza è che siamo bravissimi a complicarci la vita.

Elenco quindi di seguito tre punti, che non ho mutuato da Watzlawick ma dalla mia esperienza, seguendo i quali siamo certi di andare dritti verso l’infelicità, o per lo meno di renderci l’esistenza più complicata di quello che è.

Al primo posto metto: interpretare. Davanti a una data situazione, a una frase detta dall’altro, a un accadimento di quella giornata, noi iniziamo a fare supposizioni, congetture, valutazioni. Tutto nella nostra testa e senza fare domande, cercare confronti, ascoltare cosa ci si muove dentro.

Così se incontriamo qualcuno e magari ci sembra un po’ freddino partiamo a pensare che gli stiamo antipatici, mentre magari aveva solo fretta, o quel giorno non stava tanto bene, o aveva ansie per conto suo. L’esempio è semplice per rendere l’idea e sono certa che capita a tutti.

Un risvolto di questa tendenza a interpretare, è la convinzione che chi ci sta vicino, a sua volta, debba capire come ci sentiamo magicamente. Cioè noi non raccontiamo le nostre emozioni, non esprimiamo bisogni, ma pretendiamo che l’altro li capisca. Gli stiamo chiedendo di interpretare, praticamente.

La relazione allora diventa un enorme sequenza di malintesi, che a volte si snodano dopo poco, ma a volte ci si porta dietro per anni.

Imparare a prendere le cose così come sono, a fare domande garbate per capire cosa intende l’altro, ad esprimere cosa intendiamo noi, è un processo che appare banale ma non lo è.

Sicuramente, quando avviene, la vita diventa molto più semplice.

Al secondo posto: dare per scontato. Un po’ è simile all’interpretare che chiediamo agli altri quando pensiamo debbano capire come stiamo e comportarsi esattamente come desideriamo tramite sfera di cristallo. Ma la sfumatura è diversa, e spesso la vedo associata al ruolo in cui noi incaselliamo l’altra persona. Per esempio ci aspettiamo che un partner faccia questo e quello e dica così e cosà, che un capo si comporti in un certo modo, che la mamma debba fare queste e quelle cose e così via.

Non ci accorgiamo neanche più dei gesti di gentilezza, perché crediamo che siano dovuti – e poi magari ci restiamo male perché non vengono riconosciuti i nostri.

Credo che, in età adulta, sia molto importante cominciare a togliere le persone dai loro ruoli (anche noi stessi) e a metterci in una posizione di non giudizio, che non significa farci andare bene qualsiasi cosa, ma sostare in uno spazio neutro da cui ascoltare quali emozioni ci stanno suscitando le parole dell’altro, per poi poter attuare un dialogo che sia realmente costruttivo.

Non vittimistico, non recriminatorio: costruttivo.

L’ultima mossa (per ora) che inserisco è la convinzione che “chi nasce tondo non muore quadrato“. Questo proverbio, se da un lato possiamo prenderlo come indicazione sul fatto che la natura profonda di ciascuno di noi è data – per esempio essere estroversi o introversi, riservati o espansivi, chiacchieroni o taciturni e così via – dall’altro lato però rischia di farci cristallizzare l’immagine che abbiamo di noi e dell’altro in una forma fissa, che non è corrispondente alla realtà.

Mi spiego: se c’è una cosa che la vita insegna, è che tutto è trasformazione. Dire “io sono fatto/a così” o “tanto quello è fatto così”, è uno schiaffo in faccia a noi e all’altro, perché nega la possibilità che tutti possiamo cambiare idee, convinzioni, gusti, che possiamo migliorare tanti aspetti di noi, tanti comportamenti.

Più abbiamo questa visione cristallizzata dell’altro, e più aumenterà la nostra tendenza ad interpretare. In altre parole, ci si è formato un insieme di pre-giudizi. Ci aspettiamo che l’altro si comporti in quel modo e quando il modo sarà diverso, ci lanceremo in elucubrazioni estreme e sentiremo un disagio. Parimenti, sarà difficile per noi uscire da come ci siamo auto definiti!

Attenzione: il fatto che esista la possibilità di trasformarsi, non significa né che tutti lo vogliano fare, né che noi dobbiamo subire relazioni poco nutrienti nell’attesa infinita che l’altro cambi. Questo è molto importante.

Però possiamo sempre lavorare su di noi: anche perché solo io posso lavorare su di me, solo tu puoi lavorare su di te.

Il punto è uno: vuoi?

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