Il bicchiere troppo pieno

Mi accade spesso, notando una sorta di perplessità nell’espressione di chi ho di fronte, di dover precisare cosa intendo parlando di una delle caratteristiche principali del counseling: portare sempre l’attenzione sulla risorsa.

Puntualizzo che non mi riferisco all’ottimismo a tutti i costi, a quel bisogno di mettere i famosi occhiali rosa in ogni stagione, ancor meno a quel faticoso atteggiamento del “trovare un lato positivo in ogni cosa”.

Devo ammettere che la mia esigenza di definire meglio per non essere fraintesa, arriva anche dall’effetto talvolta irritante del tanto strombazzato “pensiero positivo”, concetto chiave in ambito di crescita personale negli ultimi 20 anni, direi.

Partendo dagli Stati Uniti (dove l’ottimismo è considerato un valore culturale) con una notevole produzione di libri sull’autostima, sul potere personale e le strategie che garantiscono il successo, ha influenzato molti scrittori e formatori anche dalle nostre parti.

E in tanti casi il lavoro interiore diventa sinonimo di ricerca della felicità, accompagnato dagli inflazionati        “credi in te stesso”,“ allontanati dalle negatività, “impara ad amarti”…

Tutto indiscutibilmente vero, molto suggestivo in certi contesti, ma…facile a dirsi!

Forse la giusta dose di realismo ci permette di constatare che la complessità caratterizza la nostra esistenza (e dubito esistano eccezioni), quindi anche ogni attività di autoconoscenza verso un maggior benessere interiore solitamente sarà impegnativa e fatta di tante sfaccettature.

Trovo fondamentale, prima di tutto, accogliere le più diverse emozioni che si muovono in noi, provando a non giudicarle e non classificarle “giuste/sbagliate, positive/negative”.

E se riusciamo a rispettarle, come naturali espressioni del nostro essere, diventano funzionali a comprendere qualcosa in più di noi stessi e delle relazioni con gli altri.

Quella forma di ottimismo ingenuo per cui “andrà tutto bene, basta crederci”, può diventare imprudente perché banalizza le difficoltà, semplifica eccessivamente gli eventuali ostacoli e trascura l’importanza di un atteggiamento critico.

Certamente pensare bene e avere fiducia nella vita produce degli effetti benefici anche sulla nostra salute, ad esempio incidendo sul sistema immunitario (come ci dimostrano anche molte ricerche scientifiche) e ci induce a stili di vita più sani.

Qui ci riferiamo però al fatto che l’eccesso di ottimismo in qualche modo causa un disagio: esiste una Sindrome di Pollyanna, definita dalla psicologia cognitiva una forma di ottimismo ingenuo e ottuso, che consiste nel percepire, ricordare selettivamente solo gli aspetti positivi delle situazioni, ignorando volutamente quelli spiacevoli o problematici.

La definizione nasce dalla protagonista femminile di un romanzo per bambini di inizio ‘900 (poi diventato anche un film Disney e un cartone animato) della scrittrice americana Eleanor H.Porter, Pollyanna, che è il ritratto della felicità.

Questa ragazzina, nonostante tutte le disgrazie che le arrivano addosso (orfana, costretta a vivere nella soffitta di una zia acida e anaffettiva, perdendo temporaneamente anche l’uso delle gambe) non rinuncia mai alla speranza grazie al “gioco della felicità”, che le aveva insegnato il padre per allontanare i pensieri tristi e infelici.

Il gioco consisteva nel regalare a tutti ottimismo, con atti gentili e garbati, sempre sorridendo e con atteggiamento felice; in pratica si trattava di un addestramento imposto e innaturale alla contentezza e al buon umore.

E’ chiaro che la conseguenza potrebbe essere una condizione di rifiuto della realtà, di evitamento delle emozioni tristi e dolorose, che sono però reali e legate a fatti concreti.

Pollyanna non volendo sentire il dolore, la rabbia, la paura, la delusione, ecc. si costringeva a vivere sempre in una fiaba, fatta di ottimismo e pensieri positivi, mentre il mondo reale è fatto di tanto altro.

Pensando al famoso bicchiere, credo che pur volendolo guardare “mezzo pieno” (quindi in un’ottica che tende al positivo) tutto ciò che potremmo trovare nella restante metà vuota rappresenti l’occasione di sperimentare e vivere lucidamente, magari per crescere interiormente.

Vito Mancuso, il celebre teologo controcorrente, parla di ottimismo così: “Conosco il dramma e talora la tragedia che spesso attraversa il mestiere di vivere. Per questo io definisco il mio sentimento della vita come “ottimismo drammatico”: vivo cioè nella convinzione fondamentale di far parte di un senso di armonia, di bene, di razionalità, e per questo parlo di ottimismo, ma sono altresì convinto che tale armonia si compie solo in modo drammatico, cioè lottando e soffrendo all’interno di un processo da cui non è assente il negativo e l’assurdo”

 

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Autore: Alessandra Caroli

È counselor relazionale ad indirizzo mediacomunicativo ed educatrice professionale. Per Avalon si dedica da anni ad attività di counseling, tutoring e organizzazione di eventi. Coordina le attività didattiche ed è parte del corpo docente della Scuola di Counseling e Media-Comunic-Azione. Si occupa di counseling e formazione in contesti pubblici e privati, con un’esperienza decennale in ambito sociale, attraverso progetti di riabilitazione per la disabilità psico-fisica di adulti e bambini e di sostegno alle famiglie. Da sempre ama approfondire la conoscenza di luoghi e culture diverse, unendo quindi il viaggio fuori al viaggio dentro di sé. Con entusiasmo, attraverso la rubrica “Il punto di vista del counselor”, si occupa di sostenere e divulgare questo approccio alla crescita personale e di favorire nel lettore un ampliamento delle prospettive nell’affrontare la quotidianità.

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