La luce dietro la porta

Capita a tutti di incontrare persone che manifestano dei piccoli malesseri che si traducono con comportamenti che a primo impatto non si spiegano con la logica, pensiamo ad esempio al timore di prendere l’autobus, di salire su una scala o di stare su un balcone. Quando siamo di fronte a queste paure specifiche dinanzi alle quali l’altro è bloccato, se a noi stessi non è mai capitato, di solito facciamo fatica a comprendere proprio perché non siamo passati in mezzo a quella esperienza.

A proposito di questo, giorni fa mi è tornato in mente un professore universitario che, ogni volta che spiegava in aula un caso di disagio, terminava la lezione con una o più domande. Ci chiedeva, ad esempio, se credevamo in quella sofferenza, se eravamo disposti ad accoglierla senza giudicarla, a spogliarci di ego e preconcetti per credere al motivo che portava lì quella persona, al fatto stesso che ne avesse uno e buono di motivo.

Quel “gli credi?” diventa presto ti credi?”

Crediamo in noi, in ciò che sentiamo dopo esserci ascoltati?

E ancor prima, domandiamoci se ci fermiamo mai a sentire quel che si muove dentro, perché dentro di noi, questo è chiaro, è davvero tutto in movimento, quindi vivo.

Credere in quel motivo significa “darsi retta” e aprire porte nuove su pareti apparentemente bianche e integre, significa affacciarsi con coraggio nel seminterrato buio dove nessuno ha mai riparato la lampadina.

E perché dovremmo entrare in un posto buio, umido e potenzialmente pericoloso?

Perché anche quella è casa nostra, anche se non ci entriamo mai, è piena di oggetti presi durante i nostri viaggi e accumulati in anni di esperienze, ci sono amori inconfessati ma non vinti, vecchie ferite, quaderni dell’infanzia, vestiti mai indossati perché scomodi e che parlano di vite non vissute, è pieno di scelte non fatte a favore di altre più adatte e utili, di fallimenti che non ci fanno perdonare.

Insomma un tesoro sommerso e inesplorato che ci appartiene, custode dei nostri desideri che difficilmente si concilierebbero con la realtà che abbiamo scelto di vivere, desideri che rimangono lì nonostante tutto, vivi.

Il nostro “sgabuzzino interiore” ci fa tanta paura perché è il luogo dell’irrazionale, dove non abbiamo controllo.

Negare il seminterrato, che sorregge la casa appena sopra le fondamenta, è negare la nostra profondità, poiché noi non siamo solo quello che si vede ma c’è dell’altro che ci appartiene e che fa di noi ciò che siamo ma anche ciò che non mostriamo di essere ed è proprio lì che risiede quel “motivo” di cui parlava il professore.

Ognuno di noi è una casa con una zona giorno esposta al mondo e una zona ombra, uno scantinato poco illuminato e conosciuto, dove regna sì la polvere e l’abbandono ma anche la possibilità e l’energia per trasformare la realtà che non fa più per noi.

In altre parole, solo se siamo disposti ad aprire, anche se di pochissimo, la porta che conduce alle nostre stanze segrete possiamo avvicinarci e accettare con amore e indulgenza i nostri come gli altrui timori. Soltanto così possiamo davvero rivendicare negli altri come in noi stessi, il diritto a quelle piccole-grandi paure della vita quotidiana.

Guardare con benevolenza a certi comportamenti che non si spiegano con la ragione, frutti di compromessi di cui non sappiamo molto, è il modo per essere ospitali con noi stessi e solidali con gli altri, in altre parole equivale ad amare.

Accettare sé stessi è la misura del valore dell’esistenza stessa.

E magari quando arriva una paura piuttosto che negarla o zittirla, osserviamola con amore, pensiamola come un messaggio che arriva dalla cantina che non apriamo mai e che ha qualcosa da dirci, forse è uno spiraglio di luce dalle nostre stanze buie.

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