Miseria e Nobilità

Caro lettore, mi trovo spesso a riflettere sull’incapacità radicata dell’essere umano di guardare davvero oltre i propri interessi o il proprio giardino.

Di quanto poco ci sia disponibilità reale a mettersi in gioco, cioè ad avere la predisposizione a scardinare le proprie convinzioni, ad abbandonare le stanze conosciute per avventurarsi nel mondo.

Anche i percorsi di crescita diventano un alibi straordinario perché, fornendoci le conoscenze o gli strumenti per evolvere, li usiamo per auto-convincerci che “stiamo davvero facendo tanto” e ci regaliamo una certa superbia; mentre la conoscenza da sola non porta alcuna crescita se non seguita dall’azione. E’ come dire che vado in palestra tutti i giorni, osservo gli attrezzi, ne imparo l’utilizzo e la finalità ma non li uso. Mi limito a guardarli.

Un aspetto che mi ha fatto riflettere e che ritrovo spessissimo, anche sul lavoro, è l’incapacità di chiedere aiuto. O meglio, quella resistenza ad accettare di non essere in grado di fare qualcosa, per mancanza di tempo, di competenze o semplicemente di attitudine e, nonostante ciò, di non contemplare la semplice, geniale, risolutrice frase: “Mi daresti una mano?” Niente! Il vuoto! Il silenzio.

Come se, nella richiesta ci fosse la conferma di una mancanza, di un’inadeguatezza propria. Senza considerare la risorsa che deriverebbe da quella richiesta. Si risparmierebbero tempo, ansia, acidità di stomaco e si apprenderebbe come agire per una prossima volta.

Quindi la richiesta d’aiuto è, a tutti gli effetti, il preludio dell’autonomia.

Forse non vogliamo essere autonomi? O forse non vogliamo perdere la materia di lamentazione di cui ci priveremmo se pronunciassimo la famosa frase?O forse è la sottile certezza che nessuno sia in grado di farlo come noi?

Queste domande mi fanno compagnia in questi giorni.

La miseria dell’orgoglio e dell’accidia e la nobiltà dell’umiltà e del coraggio. Una doppia medaglia perché talvolta anche l’eccesso di umiltà si trasforma in una trappola.

E’ quella buccia di banana del silenzio, della gentilezza eccessiva, dello stare in un angolino, del non permettersi di esprimere il proprio disaccordo, la propria indignazione o il proprio sfinimento di fronte a situazioni reiterate. Un modo indiretto per accendere i riflettori su di noi.

Anche la gratitudine sembra essere una parola desueta o, peggio, restare solo una parola.

La memoria, ci fa difetto e non è una questiona di età anagrafica. Anzi, nel pieno delle forze, nel brilluccichio dell’intelletto, ci impegniamo a cancellare con potenti colpi di spugna ciò che abbiamo ricevuto nei vari momenti, che ci ha permesso di affrontare magari situazioni dolorose, paure o di far emergere le nostre passioni e rendere concreti i nostri sogni.

Da anonimi grati diventiamo supereroi ingrati, dimentichi, in un delirio di onnipotenza che appare come la paura di “essere” nessuno.

Gratitudine deriva da gratus: memoria di un beneficio ricevuto e prontezza a dimostrarlo.

Memoria in primis. Invece noi dimentichiamo.

Ci svegliamo un giorno, uno qualsiasi, e non abbiamo più ricordi. Cosa e soprattutto chi abbiamo incontrato nella nostra vita facendoci fare la differenza non esiste più.

Ci guardiamo attorno compiacendoci di dove siamo, di chi siamo.

Punto.

Il nostro orgoglio cresce, la nostra superbia alza la testa. Dietro di noi il deserto.

Per me la gratitudine è una linea di confine. Un valore etico che non può essere oltrepassato o ignorato. Rappresenta un mio corrimano di assoluta importanza.

Per questo m’interrogo su come si possa perdere la memoria.

D’altra parte, su ogni mia riflessione, spunta sempre la considerazione del libero arbitrio, della scelta. Quindi di quell’atto che ci rende liberi o schiavi secondo il sentiero che scegliamo. Atto complesso, da cui dipende tutto e che nel semplice compiersi ha in se il seme della reazione consequenziale.

Lo sappiamo.

Lo dimentichiamo.

Scegliamo, senza ricordare che non basta solo scegliere.

Occorre scegliere con attenzione, affinché il seguito sia nobiltà e non miseria.

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