Il jet-lag non lo turba più di tanto e nemmeno il freddo che fa sulla riviera pescarese nei giorni prima di Natale, quando in città ricompaiono volti di amici che hanno cambiato vita e vivono chi più vicino, chi davvero lontano, o comunque in posti che non è che puoi chiamarti e dici “ci vediamo fra dieci minuti”. Aggiornamenti di storie, passaggi di vita, con quel filo conduttore che rimane e ti incontri proseguendo un discorso avviato, accennato, fra una mail e una chat. Ecco Marco, arrivato da New York da un paio d’ore. Una chiacchierata piacevolissima, un buon the, sottofondo di traffico e ruote di skate, che portano un po’ indietro nel tempo e si agganciano a mode che vanno e vengono.
Eccoci qui, come stai?
«Benissimo! Lavoro e vita scorrono, sono sempre più convinto che la scelta un po’ pazza di spostarmi a New York anni fa sia stata un’ottima scelta».
Da quanto tempo vivi lì, oramai?
«Beh, sono dieci anni. Adesso ho deciso anche di fare la Green-card, altra scelta di vita, una cosa da fare. Insomma, non si torna indietro».
Auguri allora. E il lavoro nella galleria d’arte? Qual è il tuo ruolo ora?
«Ottimo, piacevolissimo e stimolante, come tutto il resto che gira intorno a New York. In galleria sono “Executive director and curator”. Per il futuro voglio fare un passo ulteriore e dedicarmi all’attività di curatore puro».
Ripercorriamo un po’ i tuo passaggi di vita e di studio. L’interesse per l’arte ti ha sempre accompagnato se non ricordo male, giusto?
«Eh sì. Dunque, io volevo fare il Liceo artistico, a suo tempo. Ma i miei erano un po’ turbati da questa scelta, più che altro per gli sbocchi lavorativi, insomma, mi suggerirono un’altra via e allora, vabè, sono finito allo Scientifico, che a loro sembrava una cosa più pratica, forse sì lo era, ma la vera liberazione è arrivata con l’università. Sono corso a Ravenna, Conservazione dei beni culturali: in quegli anni c’era anche una campagna politica che suggeriva questo corso di studi per gli appassionati del settore, si annunciavano e sbandieravano importanti occasioni lavorative».
E a te come è andata?
«Mi sono specializzato in Arte medievale, peraltro utilissima anche per il mio lavoro attuale. Intendo, avere le basi, conoscere il passato per confrontarsi con l’arte contemporanea. A Ravenna ho fatto le prime esperienze come curatore di mostre in una tipografia dismessa, bel posto, ma senza un soldo, insomma, per passione».
E poi?
«Poi ho trovato lavoro a Bologna, ho avuto l’offerta di una galleria d’arte. Bene, ho pensato, finalmente ci siamo, ma sono sbucati dal nulla dei lontani parenti americani, con cugini che nemmeno conoscevo, della mia età. Abbiamo passato un’estate insieme in vacanza. E mi dicono: “Perchè non vieni a New York”? Eh, che faccio lascio un lavoro sicuro? Beh, l’ho fatto!».
E arrivato lì come ti sei organizzato?
«Ho messo a frutto un’altra mia passione, avviata già in Italia da tempo. Ho lavorato come grafico per web e stampa. Poi ho avuto una borsa di studio del City College di New York per un master di studi museali e arte contemporanea e ho cominciato a fare esperienza come curatore indipendente».
E alla NurtureArt come sei arrivato?
«C’era l’annuncio di lavoro sul loro sito. Ho risposto, fatto la selezione e sono entrato. Lavoro lì quattro giorni a settimana, al contempo sono curatore indipendente di mostre e tengo corsi da “Gallery educator” al Moma e al Guggenheim».
NurtureArt: come dire “cullare l’arte”. Ci descrivi che tipo di galleria è?
«Sì esatto, “cullare l’arte”. Noi diciamo: “Our name is our mission”. Siamo un punto di riferimento per artisti che hanno poche connessioni, poche risorse, che hanno difficoltà a proporre la loro arte. Non guardiamo l’età, ma la proposta. Possono essere persone di cinquant’anni che sono rimaste un po’ indietro e vogliono riprendere, riaffermarsi sulla scena, ragazzi alla prima esperienza. Mi piace molto perchè ne viene fuori una programmazione eterogenea. Siamo punto di riferimento, per dirla in inglese, di artisti “emerging and underrepresented”. Ma “emergente” – voglio specificare – non vuol dire per forza “giovane” come è invece in Italia dove il mercato è un po’ “addicted” alla figura del giovane artista».
Domanda fatidica: potresti fare lo stesso lavoro in Italia?
«Con la stessa impostazione la vedrei complicata ma lasciami dire che in Italia, nel mio settore, la qualità del lavoro è alta, ci sono eccellenze. Però, ecco, a New York il contesto è più esteso, per numero e diversità delle proposte. In galleria siamo molto fieri di organizzare moltissime “prime personali”. Ma siamo punto di riferimento anche per curatori, non solo artisti. Insomma, un modo di vedere e di fare molto democratico. Per tornare al confronto con l’Italia, siamo una “Non-Profit” mentre qui ci sono musei e fondazioni che sono altra cosa».
Quale forma di arte ti coinvolge di più, oltre l’aspetto lavorativo per intenderci?
«Mi piace molto il concetto del “ready made”. Trovare forme d’arte, che già ci sono, già esistono, nella realtà che ci circonda».
Oltre all’arte intesa come lavoro e passione di vita, scrivi poesie, giusto?
«Sì. Per me è relax totale, senso di spontaneità. E’ un’esperienza della mia creatività. Scrivo molto in viaggio, mi piace molto viaggiare da solo, che sia per lavoro o per piacere, quando ho la mente libera in momenti di vuoto. Quando sono in aereo, o nei cosiddetti “non luoghi” insomma. Scrivo in italiano ed inglese, mi piace mescolare l’ispirazione e la scelta di un termine».
E la fotografia? Ti cimenti anche lì giusto?
«Sì, della fotografia mi piace molto il senso di immediatezza».
(Nella foto: un’immagine della galleria d’arte dal canale Flickr della NurtureArt)