C’è qualcosa nel volo del gabbiano che mi affascina; lo vedo volteggiare nell’aria, ali spiegate, seguendo la corrente e atterrare improvviso fra le onde del mare.
Mi fa pensare, inevitabilmente, al gabbiano Jonathan Livingston, alla sua capacità di intravvedere una nuova via da poter seguire, allontanandosi dalla banalità e dal vuoto del suo stile di vita precedente; alla capacità di comprendere che oltre che di cibo, un gabbiano vive “della luce e del calore del sole, del soffio del vento, delle onde spumeggianti del mare e della freschezza dell’aria.”
Per questo, quando vedo un gabbiano, penso all’importanza di vivere pienamente le proprie passioni, e al sentimento di libertà insito in ognuno di noi.
Un sentimento che non dovrebbe mai essere trascurato, anzi, andrebbe coccolato e curato per farci sentire appagati.
Libertà è una parola che conosciamo poco e comprendiamo ancora meno: più facilmente utilizziamo, invece, il suo opposto, la prigionia, che identifichiamo come qualcosa di concreto e materiale.
E’ concreto un rapporto che va male, un lavoro che non piace, un corpo che non ci rispecchia; è concreta la mancanza di denaro, di lavoro o di amicizia.
Ci sentiamo prigionieri, e come ogni bravo detenuto, ci alziamo la mattina con il nostro bel pigiama a strisce e la catena al piede, e ripetiamo il nostro copione, senza scossoni, magari con qualche lamentazione saltuaria, ma senza osare di cambiare.
Ci trasformiamo in una fotografia in bianco e nero che ingiallisce inesorabilmente.
Guardo il gabbiano che si libra nell’aria e penso a Jonathan che desiderava imparare l’arte del volo, per scoprire tutti i segreti e raggiungere la perfezione. Una passione incompresa che l’ha portato fuori dallo stormo indispettito. E fuori, da solo, Jonathan impara a volare e non si rammarica del prezzo che ha dovuto pagare.
Perché è questo ciò che non vogliamo: pagare un prezzo! Vogliamo modificare quella foto sbiadita, uscire dalla prigionia senza dover affrontare un prezzo da corrispondere per questo.
Mille dubbi ci assalgono, aneliamo alla libertà ma non ci muoviamo di un passo, accomodati nelle prigioni soffocanti ma ben note.
Nell’idea accattivante dell’evasione scorgiamo solo pericoli minacciosi.
Pericoli che vediamo con i nostri occhi, ma essi vedono solo ciò che è limitato.
Come Jonathan, dovremo imparare a guardare con l’intelletto e il cuore e scopriremo cose che conosciamo già.
Perché il nostro corpo, dalla punta della testa ai piedi, da una mano all’altra, è il nostro pensiero; una forma di esso, visibile, concreto.
Se spezzassimo le catene che imprigionano il nostro pensiero, anche il nostro corpo sarebbe libero e imparerebbe a volare.
Il gabbiano Jonathan ha scoperto che erano la noia, la paura e la rabbia a rendere così breve la vita di un gabbiano.
Non è forse lo stesso per noi?
Abbiamo paura di volare, di sollevarci in volo. Temiamo che ci accada qualcosa di terribile e siamo disposti ad accettare una prigionia reale e concreta, invece di andare verso una direzione solo “immaginata” pericolosa.
Mi piace quel gabbiano che segue la corrente; ammiro il suo volo.
Immagino che sia Jonathan che ha imparato a superare lo spazio e il tempo, scoprendo che non c’è altro che l’adesso e il Qui, il Qui e ‘Adesso.
Quel piccolo gabbiano che aspirava a essere perfetto nel volo e che aveva scoperto che la velocità perfetta non è di mille miglia l’ora, o di centomila o la velocità della luce. Perché qualunque numero è esso stesso un limite, mentre la perfezione non ha limiti e velocità perfetta significa solo ESSERCI, ESSERE La’.
Il gabbiano sta volando ed io lo seguo con lo sguardo. Muovo le braccia a imitarlo e le vedo trasformarsi, spuntare una piuma, e poi un’altra, e un’altra ancora. Le mie braccia si stanno trasformando. in ali…
Le ali della libertà.