Dicono che ci siano varie porte per entrare in India e nessuna per uscirne, tanto è la bellezza di questo paese, con la sua gente e il suo modo di vivere.
Dopo la porta del Rajasthan ci sono tornata, attraverso quella del Ladakh, la porta del paradiso.
Circondato dalla catena Himalayana da un lato e dal Karakorum dall’altro, il Ladakh è un posto impervio, dallo spettacolare scenario lunare, dal territorio arido che, improvvisamente, diventa verde, snodandosi lungo una lingua glaciale.
Paese dei monasteri buddisti e delle coltivazioni di albicocche, di povertà e di sorrisi, di “Juley” pronunciati con grazia.
Ti aspetti, davvero, di toccare il Paradiso e invece, prima, fai una sosta in Purgatorio: perché ad aspettarti, all’unico aeroporto militare, dove arrivi dopo un viaggio lunghissimo, c’è il famoso “mal di montagna”.
L’aria qui è rarefatta e occorre abituare il corpo ma, poiché, dal livello del mare, arrivi subito a tremilacinquecento metri, ecco che il fiato si fa corto, ansimi, ti manca l’aria mentre il mal di testa s’impossessa di te.
Ho passato la notte a cercare di respirare e la mattina dopo, al mal di testa si è aggiunta la nausea.
“Non sei ancora verde- mi dice Adriana, la guida del tour, – ti faccio portare un po’ di ossigeno e poi vediamo.”
In albergo sono attrezzatissimi ed eccomi, con una bombola di ossigeno attaccata e il direttore che insiste perché mangi, mentre, io, continuo a dare di stomaco.
“Doveva essere una vacanza, giusto?” ansimo tra una boccata e l’altra.
A ventiquattro ore dall’allegra partenza (andiamo a vedere l’Himalaya!) mi ritrovo in un letto, in compagnia di una bombola di ossigeno e un mal di testa che mi sfinisce.
Come se non bastasse, Adriana, nonostante l’ossigeno, sentenzia: “Ospedale!”.
Incurante della popolazione di cani fuori dagli improbabili caseggiati e della marea di persone che affollano il luogo, (ma sono tutti malati oggi?), sono trascinata, da una parte all’altra, dalla guida che promette vie di favore per poi, arrivare alla conclusione che devo fare la fila per l’accettazione (io che non mi reggo in piedi!).
Dopo non so quanto tempo, quante donne e quanti bambini, pago le due rupie ed esco vittoriosa con il foglio per la visita medica. Guardo speranzosa la guida, ma mi aspetta un altro giro di giostra (giuro che non parlerò più male del Policlinico di Roma) prima di arrivare di fronte l’ambulatorio medico.
La dottoressa mi accoglie insieme con altri tre o quattro pazienti. Indossa una mascherina protettiva (la voglio anch’io per uscire indenne!) attraverso cui mi parla in inglese.
E così tra la confusione generale, il rumore, la misurazione della pressione, del battito (c’è l’ho ancora un battito?) e la difficoltà a dialogare, mi conferma il fatidico “mal di montagna” prescrivendomi, tra gli altri farmaci anche un iniettivo per la nausea.
Tappa successiva il dispensario per l’iniezione.
Osservo l’infermiera, seduta a un banchetto a gambe incrociate, che a sua volta mi osserva incuriosita; la vedo afferrare la siringa sterile (ma non deve lavarsi le mani o indossare dei guanti?), aprire la fialetta, aspirare il contenuto e afferrare un pezzo di ovatta poggiato sul tavolo (e l’alcool?); quindi avanzare verso di me (mi farà l’iniezione davanti a tutti? E la privacy?), afferrarmi il braccio sinistro e cercare la vena: un’endovena!
Le forze mi tornano immediatamente. Schizzo su gridando: ” Are you crazy?” “Why – she said?” “It’s not sterilized!”Oh yes” – dice mostrandomi la busta aperta della siringa. “yes, but not your hands, and the cotton and so on” e dimenticando l’inglese ” Mi sparate un antiemetico in vena tutto di un colpo e pretendete che stia a guardare?”
Esco di corsa dal dispensario con la guida che mi segue attonita, l’infermiera con la siringa ancora alzata e Valerio che aspetta fuori senza capire.
Al ritorno, il grande hotel Himalaya mi appare il Ritz di Parigi e il viso del direttore quello di un familiare; per l’emozione e gratitudine di rivederlo mangio, persino, la marmellata e il toast che mi ha continuato a propinare.
Dormo tutto il pomeriggio, con piccoli intervalli durante i quali apro gli occhi esclamando: ” mi faccio un po’ di ossigeno” e verso sera, il mal di montagna decide di abbandonarmi per andare a far visita a un altro membro del gruppo.
Virgilio-Valerio mi accompagna fuori per iniziare, finalmente, il sospirato viaggio.
Destinazione? Il valico più alto del mondo, con i suoi 5600 metri.
Una bella emozione e ancora una lezione di vita: quando manca l’aria, c’è sempre una bombola di ossigeno da qualche parte!