Avete notato quanto sia diffuso il termine “perfetto”?
Il matrimonio perfetto! L’abito perfetto! Che coppia perfetta! Quella modella è a dir poco perfetta!
Un concetto, quello della perfezione, così tanto tirato in ballo che desta quasi sospetto e merita una riflessione, a maggior ragione in una società che manifesta spesso insofferenza e insoddisfazione e esalta, più che mai, l’imperfezione delle situazioni. Pensiamo all’ imperativo “mai una gioia” che impazza ovunque ed è ormai l’emblema della scontentezza o, per dirla in altri termini, della sfiga.
Da una parte c’è la ricerca ma anche l’esaltazione della perfezione e dall’altra l’insoddisfazione legata alla sua inafferrabilità. Un paradosso, quest’ultimo, che si traduce nella convinzione radicata e permeante che non si è mai abbastanza e che manchi sempre qualcosa che ci autorizzi a gioire.
Un pò come se la situazione perfetta fosse l’unica condizione della felicità e ogni mediazione fosse vista come compromesso o peggio come un accontentarsi.
Insomma, la vita e la sua imprevedibilità, ci offrono la scusa per non essere felici e in questa costante ricerca inseguiamo un ideale che forse non esiste ma che vogliamo ad ogni costo. Il costo però può essere alto.
C’è una sindrome, l’atelofobia, che descrive il malessere di non sentirsi perfetti. Essa deriva dal greco atelès “imperfetto” e phòbos “paura”. Chi ne soffre vive l’estenuante ricerca della perfezione e la paura di non trovarla può coinvolgere tanti ambiti della propria vita, dall’aspetto fisico alla vita relazionale, sociale e lavorativa. Ai volumi più alti questo disagio psicologico assume la forma di un pensiero persistente e invasivo che tormenta chi ne è affetto e lo condiziona nelle sue scelte. Colpisce soprattutto le donne, più vulnerabili al giudizio e al confronto, minando autostima e benessere fino ad arrivare a importanti stati ansiosi.
Proprio giorni fa, parlando con un amico, riflettevamo su quanto sia difficile competere con le aspettative altrui e, ancor prima con le proprie, rischiando la delusione.
Combattere contro i “speravo che”, i “mi aspettavo che capissi da solo”, ecc. diventa estenuante e tristemente dispendioso energeticamente, al prezzo della spontaneità e della fluidità delle relazioni.
Mentre scrivo realizzo che il concetto di perfezione è invischiato con quello di aspettativa e, scavando più a fondo, di sicurezza.
Ebbene sì, attenersi all’ideale significa muoversi nel recinto noto dell’approvazione e dunque dell’accettazione degli altri.
L’abbigliamento giusto, la taglia perfetta, il peso ideale, il lavoro “IN”, l’automobile nuova ci rassicurano, ci proteggono dal sentirci diversi, dallo scoprirci vulnerabili dunque imperfetti, non ci espongono all’umiliazione di non essere ok.
Di nuovo si affaccia il paradosso di una società che non vuole passare inosservata ma non desidera essere originale.
Quale paura nasconde tutto questo?
La paura di sentirci ciò che talvolta siamo ossia inadeguati, insufficienti, inadatti, manchevoli, scarsi, sproporzionati.
Si può dire? Fa male leggerlo?
Sì, fa male e fa male perché forse non essere abbastanza bravi, belli, simpatici, capaci, ecc. potrebbe tagliarci fuori dalla vita degli altri facendoci sentire esclusi o giudicati. Sentirsi fuori dal cerchio dorato di un’ipotetica perfezione ci espone alla possibilità di non essere amati o peggio di non sentirsi degni.
Ma noi siamo tutto, in questo siamo assolutamente perfetti.
Possiamo attingere alle mille risorse e sub-personalità che ci abitano. Possiamo essere inadatti in talune situazioni e eccezionalmente performanti in altre. Possiamo essere i primi della classe e i più scarsi nel gioco del calcio, possiamo persino ridere di ciò che non siamo e magari appannare gli occhiali del nostro critico interiore con una sana e grassa risata!