Qualche giorno fa dovevo concludere un lavoro importante, in un periodo già da tempo sovraffollato da altre incombenze, ma non riuscivo a portarlo a termine. Una successione di scadenze e di impegni ‘improrogabili’ con la necessità (e/o la compulsione) di metterli in fila, mi avevano come svuotata, avevano allentato l’attenzione da me stessa e dagli altri e distolto gli occhi dal cielo. Nel frattempo la primavera esplodeva e invitava a spalancare finestre e cuore.
Quante volte ci è capitato di girare a vuoto, rendendoci conto di essere in apnea da troppo tempo, con le energie in riserva ma con l’ostinazione di pretendere un altro passo ancora? Quante volte ciò che sta fuori ha avuto il sopravvento su bisogni e piaceri personali inducendoci a rimandare o a rinunciare? Sicuramente troppe.
Ignorando tutti i segnali di stanchezza, insoddisfazione, rabbia repressa e sensi di colpa, pensavo di resistere e procedevo imperterrita e a testa bassa nella mia vecchia cara modalità muflonesca. Nel mio condominio interiore si era intanto scatenata la bagarre: la madre interiore invitava alla sosta ma l’attivista non ammetteva pause e incalzava con tutto quello che c’era ancora da fare; la matriarca ribatteva che erano tutte sciocchezze, invece si stava trascurando la casa ed era ora di fare un po’ di pulizie; la vittima si lamentava della stanchezza e di non essere capita ma il guerriero diceva che non poteva arrendersi, il critico rincarava la dose sottolineando la disorganizzazione e la scarsa qualità delle cose fatte in fretta, negando il diritto alla lagna in assenza di gravi e comprovati motivi; la bambina che voleva andar fuori a godersi il sole e i primi fiori di prato era arrabbiatissima e stufa di sentirsi dire sempre dopo; afrodite avvelenata da tanta pesantezza si era eclissata sperando in tempi migliori, così come tante altre parti di me che non riuscivano a far sentire la loro voce.
Un vero e proprio ingorgo di pensieri e sensazioni, una serie infinita di “devo fare questo e devo fare quello” fino al blackout. Impossibile continuare quando si è in stallo, e proprio come i computer bisogna spegnere e riaccendere. Ho spostato lo sguardo e ho visto il cielo, ho lasciato tutto e mi sono alzata, ho spalancato le finestre e ho respirato, di nuovo. Mi sono guardata intorno e ho capito: “come dentro così fuori[1]. L’avevo visto quel disordine diffuso nelle stanze e negli armadi, un altro degli impegni sulla lista, ovviamente in coda alle urgenze, non era altro che il riflesso dinamico del mio stato d’animo. Poi l’ho osservato e sì è trasformato in necessità di prendermene cura, in urgenza improrogabile, una rivolta degli oppressi per ristabilire ordine fuori e dentro di me. Una mia carissima amica americana lo chiama cleaning mood, quella sorta di raptus, di impeto energetico che come dopo una tempesta regala un cielo più terso che mai. E grandi soddisfazioni: la concretizzazione di risultati immediati, visibili e profumati, l’appagamento di un lavoro ben fatto, nuovi spazi, leggerezza e luce.
La risonanza tra spazio esterno e dimensione interiore è una costante di moltissime culture sia antiche che moderne: oggi si parla di space clearing, per i cinesi è da sempre il feng shui, per la cultura vedica indiana è il vastu, pulizie di primavera per la nostra tradizione nostrana. La costante comune è la consapevolezza del rapporto di osmosi tra ambiente e psiche, la necessità di armonia e di cura e la capacità dell’uno di influire sull’altro. Fare pulizie, liberarsi del superfluo, lasciare andare zavorre e ricordi inutili: tutte pratiche sia concrete che simboliche, così come dare ordine, rimettere le cose a posto, creare lo spazio per il nuovo e la bellezza. A volte basta sistemare un cassetto per schiarire i pensieri, a me è servito per trovare nuovo slancio e la voglia di ripartire.